Paolo Leon: Economia e/è Cultura, Lavoro e/è Sviluppo

A cura di Luca Carbonara (estratto dell’intervista)

Quali ritiene siano state le tappe più significative del suo percorso formativo, umano, prima ancora che professionale?

Sono andato alla scuola pubblica, e poi all’università, anche questa pubblica. Parlo di molti anni fa: mi sono laureato a Roma, dove già vivevo, nel 1958. Al liceo ho avuto professori straordinari, per cultura e dedizione, soprattutto di letteratura e di filosofia. Allora c’era un altro esame di maturità, duro nelle aspettative e nella descrizione degli insegnanti, facile nel superarlo, se accanto allo studio si poteva portare un po’ di cultura generale. Già al momento del diploma di maturità volevo studiare economia, perché pensavo che l’Italia, che allora stava appena uscendo dalle difficoltà della guerra, avrebbe avuto bisogno anche di economisti.

Ci sono delle similitudini, secondo Lei, tra quel momento storico (venivamo fuori dalla guerra ed il Paese era distrutto sotto tutti i punti di vista e dunque bisognava ricostruirlo, bisognava ricominciare, voltare pagina) e l’attuale?

No, direi che c’è una grandissima differenza: allora si usciva da una situazione di distruzione fisica e morale, ma si capiva che si poteva uscirne. Avevamo avuto forti aiuti finanziari, provenienti dagli Stati Uniti, e nuove aperture culturali, provenienti dai partiti che si erano appena formati dopo la guerra, e che avevano assoluto bisogno di avere un rapporto pedagogico con la popolazione che, dopo vent’anni, non sapeva neanche cosa fosse la democrazia. Fu un periodo di grande interesse perché si poteva ricostruire, e si potevano anche ricostruire gli Italiani… una bellissima cosa. Tutti avevamo chiara l’idea del progresso, che non era solo materiale.

C’era anche un particolare spirito di solidarietà?

La solidarietà era forte, però l’Italia era ancora un Paese per metà agricolo e quindi, nell’ambito urbano, esistevano in realtà forti differenze di classe. La scuola pubblica che avevo frequentato era, nonostante tutto, una scuola borghese, qui a Roma, perché la scolarizzazione era ancora molto modesta; anche quando sono arrivato all’università si era in pochi. Inoltre ho avuto un vantaggio enorme, che oggi è molto più difficile trovare: prima di scegliere la facoltà universitaria sono andato a parlare con tre persone: Federico Caffè, Paolo Sylos Labini e Giorgio Fua, che erano i tre giovani economisti che stavano emergendo all’epoca. Ciascuno ha ricevuto un ragazzo uscito dal liceo, tutti mi hanno fatto domande sulla mia cultura personale e poi mi hanno indirizzato dicendomi: “No, non fare subito Economia e Commercio, fai Legge, perché allora Economia e Commercio era essenzialmente una facoltà aziendale, mentre io volevo conoscere l’economia.

Questo inizio non fu deludente, perché anche a Legge, benché le materie fossero lontane da quelle che desideravo affrontare, mi e stato dato un forte aiuto nel raffigurare il rapporto tra economia e realtà.

Quali sono state le letture che hanno rappresentato le pietre miliari della sua formazione culturale?

Ho cominciato con la letteratura russa, e Dostoievsky in particolare, anche grazie a questa specie di tarlo sulla giustizia sociale che avevo dentro. C’è voluto molto tempo prima di capire Čechov, perché quel tarlo mi fece interessare più al contenuto che alla forma, poi però ho capito che Čechov era forse il più grande tra i grandi, non più di Tolstoj, ma più grande di Flaubert e Balzac, nel descrivere la borghesia. Dai‘russi’sono passato ai ‘francesi’, soprattutto a Proust e poi, contemporaneamente, ai ‘tedeschi’, tra tutti, oltre al

Goethe del “Wilhelm Meister”, Thomas Mann ed Herman Hesse, pur cosi diversi. Bisogna considerare che sto parlando degli Anni Cinquanta, l’epoca nella quale mi stavo formando, quando leggevo i libri che erano usciti dagli Anni Trenta in poi. In Italia, tra l’altro, durante il Fascismo molti autori non potevano circolare, e trovarli non era facile (faceva eccezione “Americana” di Vittorini, che avevo trovato nella biblioteca di mio nonno).

A Bulgakov è arrivato dopo?

Molto più tardi, quando il mio gusto era già formato. Non posso dire di aver amato gli esoterismi, anche simbolici, perché la mia formazione era anche fortemente religiosa. Cosi, dei russi avevo letto quelli che oggi considero ‘orridi slavofili’ tutti un po’ mistici, molto reazionari (Soloviev, ad esempio). Il lato religioso mi ha spinto agli‘spagnoli’, tra i quali preferivo Calderon de la Barca. In questo contesto non ero solo, avevo compagni di scuola e amici. Era un ambiente ristretto in Prati (a Roma), un gruppo di ragazzi borghesi piuttosto colti. Loro mi hanno trasmesso l’amore per la musica. Avevo letto molto ma di musica classica non sapevo nulla. Una formazione personale in più rispetto a quella scolastica è ciò che mi chiese Caffè, prima di parlare di economia. Il primo colloquio con Fua, invece, fu diverso perché voleva sapere se avevo avuto esperienze di lavoro concreto, cioè se avevo fatto qualcosa e non solo letto.

Per quanto riguarda la letteratura, diciamo, di ‘casa nostra’?

Tanto per cominciare c’era un’infatuazione con l’editore Einaudi, tanto più che si compravano i libri a rate e quindi ci si avvicinava alla grande letteratura in modo economicamente possibile. Allora ho potuto leggere Pavese, Fenoglio, Calvino, la Ginzburg e Moravia, anche se mi piaceva meno.

Come definirebbe l’economia nella società post moderna e post capitalistica di oggi?

Altro che società post capitalistica! È capitalistica, anzi è tornato ad essere un capitalismo quasi puro. Nel riflettere sugli ultimi anni, prima e dopo il crollo, penso che parlare di economia sia utile, ma sarebbe meglio se si guardasse alla realtà effettuale e non semplicemente ai modelli. È giusto parlare di capitalismo, e non solo di economia, perché dà meglio l’idea delle forze in campo. E in particolare dopo la straordinaria espansione del sistema finanziario, perché il capitalismo di oggi assomiglia tanto a quello della seconda

metà dell’Ottocento. Allora non c’erano le banche centrali, la moneta era emessa dalle banche “universali”che potevano prestare a lungo termine anche se i depositi erano a breve. La vera banca centrale nasce solo con Roosevelt e qui in Italia nel 1936.

Che differenza c’è tra quel capitalismo e quello di adesso?

Quello attuale e molto più potente ma non ha la possibilità di trasformarsi in conflitto armato, come si trasformo tra Ottocento e Novecento più d’una volta, perché il progresso tecnico ha creato armi troppo potenti per poter effettivamente determinare un esito univoco del conflitto: è come se Carl von Clausewitz fosse rivoltato: la guerra non è la continuazione della politica ma la politica è la nuova forma in cui si presenta la guerra. Faccio un esempio: la moltiplicazione dei titoli finanziari che si e prodotta fino al 2007-2008, dovuta essenzialmente alla riduzione delle regole sul mondo finanziario determinata prima da Reagan e poi da Clinton, non è legata ad un preciso aumento dell’economia in termini di beni e servizi nei paesi ricchi, pero è riuscita a finanziare lo sviluppo dei paesi emergenti e quindi ha avuto un effetto straordinario dato che almeno un miliardo di persone è uscito dalla povertà.

La Germania vuole salvare la Grecia?

Il metodo migliore per salvare la Grecia è farle fare bancarotta, insomma fare “un’amministrazione controllata”. Deve entrare in “amministrazione Controllata”, come si fa per un’azienda: così non la distruggi, chiami i creditori e come dice la parabola di Cristo

“quanto mi devi 100? Scrivi 10”. Nel Vangelo è scritto così e si fa del resto così ogni volta che il debito pubblico non è assolto da qualcuno dei PVS (Paesi in via di Sviluppo). Per la Grecia, invece, hanno esitato e nel frattempo la situazione è diventata più complicata.

La vogliono salvare con i soldi ed è sbagliato perché se dài i soldi stai solo alimentando la speculazione. Poi c’è un principio su cui io insisto moltissimo in questi tempi: impoverire il debitore impoverisce anche il creditore perché se non gli dài i mezzi non ti compra più niente. Questa fu la sintesi del Piano Dawes sulle riparazioni di guerra tedesche dopo il Trattato di Versailles. Keynes intervenne e disse:

“Se voi continuate a richiedere riparazioni che colpiscono l’economia tedesca, colpite anche la nostra economia” e fu anche la logica del Piano Marshall perché gli Americani dissero:“Se non finanziassimo la ricostruzione in Europa saremmo tutti più poveri”, perché all’epoca i paesi europei erano tutti fortemente indebitati.

Cosa pensa della diatriba tra pubblico e privato?

La diatriba tra pubblico e privato e difficile da definire perché ogni volta e diversa la questione. Le grandi privatizzazioni, realizzate per fare cassa, sono state un disastro perché hanno determinato dei monopoli privati in sostituzione del preesistente monopolio pubblico: anche questo lo dobbiamo al centro – sinistra. Era il 1991 e i sindacati riuniscono un gruppo di economisti e ci dicono: “Siamo alla vigilia di qualche cosa” – nel 1992 ci sarebbe poi stato l’accordo governo-sindacati fatto da Amato – e molti tra di noi dicevano:“Dobbiamo svalutare rapidamente perché questa non è una situazione sostenibile”; ma altri, soprattutto nel PCI, sostenevano che invece bisognasse seguire la Banca d’Italia e difendere la lira fino in fondo. Una stupidaggine, c’era un pregiudizio piccolo borghese dentro al PCI all’epoca. Comunque allora si disse anche:“Che si fa? Il debito pubblico è molto alto e quindi bisogna ridurlo. Possiamo svendere il patrimonio?”. E tutti dissero:“No”. Qual era la soluzione? La soluzione che venne in mente a Guido Rey, che io sostenni fortissimamente insieme anche ad una parte del sindacato, ma che finì in un nulla, era questa: costruiamo i fondi complementari per le pensioni ma, allo stesso tempo, costringiamo questi fondi, che sono dei lavoratori, ad acquistare azioni di ENI, banche, ENEL, etc. perché sono i più sicuri – non spingendoli sul mercato finanziario, perché in quel caso sottoponi i fondi a rischi anche drammatici (com’è avvenuto).

Lei è favorevole o contrario alla TAV?

Per me il problema e diverso: il tunnel si poteva fare, senza ancora contare la reazione delle popolazioni, se fosse stato prima cambiato il sistema di trasporto merci in Italia, perché quel tunnel e valido solo se trasporta merci, ma se le merci vanno in camion, ovvero su gomma, non vanno su ferrovia e quindi quest’ultima diventa inutile.

L’unica condizione per cui questo tunnel poteva essere conveniente dal punto di vista dell’economia nazionale era che almeno 1/3 delle merci del Nord fosse trasportato su treno. Altra condizione è che se si fa questo tunnel non si fa più il raddoppio del tunnel del Frejus, quello autostradale. Era grossa la riforma da fare.

Cosa pensa della questione relativa all’impatto ambientale?

L’impatto ambientale non e stato calcolato, era impossibile calcolarlo; non avevo neanche i dati per poterlo fare. È stato scritto:“Fate attenzione, c’è l’impatto ambientale”. L’impatto vero, però, era sulle popolazioni locali ed io avevo suggerito di cambiare valle, di scegliere quella vicina, la Val Sangone, dove non c’è nessuno cui poter nuocere. La gente ha rifiutato anche questa alternativa. Il tema, però, è il seguente: se il tunnel implica la riduzione drastica del trasporto su gomma nel Nord, allora il beneficio ambientale dalla riduzione dei gas di scarico è grande; il malefico effetto ambientale della costruzione del tunnel va visto insieme a quel beneficio: non si possono scambiare ma si possono misurare.

L’Economia è il motore di qualunque società, sia essa arcaica (basti pensare al ‘baratto’), moderna o post-moderna. Visibili e chiari, però, sono i limiti e le contraddizioni di qualsivoglia modello di società, come di sviluppo, proprio perché l’economia non riesce ad essere ‘giusta’ o in grado di soddisfare i bisogni di ciascuno. Esiste, allora, un modello di economia e di sviluppo in grado di risolvere tali contraddizioni e di garantire il benessere, non solo materiale, di tutti?

Modelli non ce ne sono: tutto scorre, anche il capitalismo; e non resta fermo, perché ciò che arricchisce il capitalismo è la cultura che è capace di produrre.

Qual è, secondo Lei, la strategia più efficace per uscire dalla grave crisi economica e sociale che stiamo vivendo in questi ultimi anni?

Giudicare l’efficacia di una strategia ex ante è quasi impossibile, senza giudicare l’efficacia delle strategie in corso.

Queste ultime sono un caso eclatante di fallimento annunciato: le misure di austerità, per ridurre sia il disavanzo pubblico sia il debito in Europa, quando le economie sono in stagnazione o crisi, significa soltanto generare ulteriore spreco della risorsa umana e aumentare l’infelicità delle persone, insieme alle loro frustrazioni e reazioni irrazionali – da qui è sempre sorto l’egoismo, il nazionalismo, l’odio razziale, l’odio di classe, la guerra. Eppure, la via per ricostruire un’economia europea e, forse, mondiale, è piuttosto ovvia. Si tratta di riformare alcune istituzioni – il Parlamento Europeo, il governo europeo, almeno per la parte economica e finanziaria, i sistemi bancari nazionali, la Banca Centrale Europea – in modo da mobilitare risorse umane e materiali oggi inutilizzate.

Sarebbe sufficiente trasformare la BCE in un’istituzione più simile al Sistema della Riserva Federale americana, capace di emettere moneta e di finanziare in tutto o in parte i deficit pubblici, erigendo contemporaneamente uno scudo contro la speculazione internazionale avversa sia ai sistemi bancari europei sia alle finanze pubbliche dei paesi membri. “Vaste programme”, avrebbe detto irridendo il nazionalista De Gaulle, ma l’Europa è sempre stata un ”vaste programme”, ed è solo la sua progressiva riduzione a semplice unione doganale che ha impedito il progresso verso l’Europa stato federale. Tutto ovvio: solo che oggi sembra irrealizzabile, e proprio per l’egoismo nazionale della Germania e la subalternità degli altri paesi membri. Una certa mancanza di coraggio è anche nel Parlamento Europeo, che non riesce a liberare tutta la sovranità della quale è portatore nascosto. Di per sé, l’Europa è solo un concetto; ma se vogliamo darle una caratteristica che ne giustifichi l’identità, basterebbe invocare il“modello sociale europeo”, oggi sotto formidabile attacco liberista, per far vedere la differenza tra Europa, Russia, Stati Uniti, Cina o India.

Questa voce è stata pubblicata in Estratti delle interviste di Cultura e dintorni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *