Recensione al romanzo di Saveria Chemotti “Ci darà un nome il tempo” edito da Iacobelli Editore

La copertina del romanzo di Saveria Chemotti Ci darà un nome il tempo

Passo dopo passo. La vita è un procedere lento lungo i percorsi del destino, tutto sommato. Aggrovigliati, tumultuosi, malinconici, a volte insidiosi. Si intrecciano così nell’ultimo romanzo di Saveria Chemotti le esistenze delle due protagoniste nel farsi cammino di esitazioni e speranze, dubbi e certezze, dolori e rimpianti.
Le figure femminili che Chemotti intaglia nel legno dell’esistenza escono dalle pagine scheggiate da sapienti colpi di scalpello. Se Claudia, docente di letteratura severa e indomabile, appartiene ai paesaggi liquidi del Delta del Po, infuocato d’estate e pallido d’inverno tra l’ondeggiare del fiume e il librarsi in arie limpide degli uccelli migratori, Marta, l’allieva attenta e curiosa, s’impasta con le montagne del suo Trentino, ne accoglie le brezze leggere che sanno di alberi profumati e gli inverni freddissimi tagliati da venti sferzanti.
Due donne a loro modo singolari e alla ricerca di un “plurale” che non arriva mai. Nell’esistenza di Claudia un evento terribile che le porta via gli affetti più cari, lasciando un incolmabile e angoscioso vuoto dentro al quale si perde persino ogni possibilità di parola, sembra preludere ad uno smarrimento della coscienza che lascia increduli e incapaci di reagire. In quella di Marta, la voglia indomabile di cambiare le prospettive del futuro rompe con tradizioni millenarie, incise quasi tra quelle valli silenziose e verdeggianti nelle quali il sovrapporsi delle stagioni non sembra lasciare altra possibilità che il ripetersi inderogabile di giorni che diventeranno presto terribilmente uguali a se stessi.
Pure, nel gioco riflettente di specchi della memoria che fanno rimbalzare un dialogo sincopato tra Claudia e Marta sempre più profondo e per certi aspetti “tragico” per come si insinua nei pensieri liberando energie sconosciute e affrontando tematiche scottanti, la fede, la religione, la politica, il rapporto vischioso con il contesto sociale che gravita attorno, danzano, a volte incerte, le rappresentazioni del mondo che ci diamo e che chiediamo, che vorremmo salde e che spesso rivelano invece tutta la loro fragilità.
Per questo le due “danzatrici del tempo” procedono in un viatico fatto di molte domande che si pongono spesso a vicenda nel corso di un dialogo elettronico via mail e tutto sommato di poche risposte che faticosamente tentano di fornire a sostegno delle loro rispettive posizioni.
Ci darà un nome il tempo indaga luci e ombre dell’anima con una sorta di spietata consapevolezza, vale a dire l’impossibilità assoluta di trovare soluzioni certe a problemi che molte e molti di noi lasciano sospesi sulle labbra in attesa di un fiato di voce risolutivo che spazzi ogni compressione, ogni fastidioso riproporsi di oscurità che ci minacciano.
Attraverso l’esperienza del dolore, un altro dei nodi essenziali della narrazione dell’autrice, più di quanto forse lei stessa non ammetterebbe, si coagula in certo qual modo la materia del sogno; sogno di una vita diversa, di una vita appagante, declinazione di sentimenti veri che nascono da dentro e non vengono colonizzati da un esterno per lo più incomprensibile. Probabilmente per questo, alla ricerca del tempo che non è stato e che non sarà mai, Marta si fa suora e trova rifugio nel convento di clausura, ristabilendo un rapporto ordinato con i propri giorni, chiedendo conforto al divino, qualunque cosa esso rappresenti, e inverandolo nelle realtà di misurate ore al servizio della preghiera, della riflessione, della pratica dell’orticoltura. Tutte cose incomprensibili a Claudia, generosamente irritata contro ogni forma di Dio in terra, o nei cieli, in tutta evidenza, a parere suo, una incomprensibile deformazione della ragione e della storia, un’irritante oscurità dell’intelligenza che per Marta è, al contrario, luce sul mondo e sulle cose del mondo.
Il romanzo di Chemotti possiede una densità culturale di indubbio rilievo se soltanto ci disponiamo a leggere tra le righe cercando tra vocali e consonanti, e tra una punteggiatura sempre appropriata che si prende le pause giuste, il suono del silenzio, la rappresentazione plastica di intenti che vanno ben oltre la forma narrativa pura e semplice diventando spunti, se volete, per un saggio sul rapporto tra maschile e femminile, tra verità e menzogna, tra forma e sostanza, tra natura e cultura.
Sul palcoscenico di questa “avventura nella vita” entrano e escono molti altri comprimari, scandendo il ritmo del racconto secondo una formula che Chemotti ben conosce e di cui ha già dato prova in altre sue fatiche letterarie. L’universo maschile, per dire dell’innesto più importante, è misurato nell’alternarsi di figure d’uomini che sanno interpretare ruoli positivi per quanto sempre un po’ al margine, quasi faticassero a prendere possesso di una funzione determinante. Del resto, come potrebbero dinnanzi alla tempesta emotiva che Claudia e Marta incessantemente fanno scoppiare attorno a loro, impegnate in ben altre questioni che mettono a margine volontà piuttosto deboli come solo quelle del maschio occidentale sanno essere?
Passo dopo passo le due donne si avvicinano alla meta di un tanto invocato incontro. E sembra quasi di essere lì con Claudia, nella frescura del convento tra echi antichi che rimbalzano sulle pietre, mentre i passi sempre più veloci di Marta si avvicinano. Nel contatto tra i corpi ogni velo si strapperà, forse. A riconciliare sentimenti sconosciuti cui verrà, prima o poi, dato un nome.

Mario Coglitore

                                                                                                           
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