L’imprevedibile destino di sentirsi in una “trappola morale”. Intervista a Roberta Bobbi

L’imprevedibile destino di sentirsi in una “trappola morale”

Intervista a Roberta Bobbi

a cura di Luca Carbonara

Roberta Bobbi Ritratto

Come accade spesso a tanti attori e attrici che approdano al Cinema dopo pregnanti quanto significative e prodromiche esperienze teatrali, lei approda alla narrativa dopo aver scritto alcuni testi teatrali come Ustascia. In che termini i suoi studi di drammaturgia e di recitazione influenzano, qualificano e determinano la sua successiva formazione come scrittrice di romanzi?

In realtà, studiando recitazione si fa innanzitutto analisi del testo che di solito è prettamente dialogico, si approfondiscono i personaggi cercando di carpire innanzitutto la loro psicologia per incarnarli poi meglio possibile, si cerca di non tradire il messaggio che l’autore voleva trasmettere scrivendo l’opera. E questo vale sia per i copioni di drammaturgia sia per le sceneggiature. Di certo la mia esperienza di attrice mi ha fatto modulare ogni singola battuta, me l’ha fatta assaporare nelle molteplici variazioni semantiche che lo spostamento di un accento può dare. Quando poi ho iniziato a studiare anche drammaturgia ho dovuto inevitabilmente tentare di scrivere per il teatro, almeno per esercizio, e ci ho provato gusto, passione. Tanto da scrivere “Ustascia” e riuscire anche a portarla in scena. Di seguito, ho cominciato a seguire anche alcuni stage di sceneggiatura ed allora ho allargato la scrittura iniziando a descrivere anche gli ambienti. Poi, un giorno, una mia cara amica, attrice, regista e scrittrice di successo mi ha coinvolto nella stesura di un giallo e grazie a lei ho desiderato cimentarmi poi nella scrittura di un romanzo. Avevo l’esigenza di raccontare la storia di una tanatoestetista ma l’argomento non si prestava a una rappresentazione teatrale, l’idea di scrivere una sceneggiatura mi scoraggiava ed allora l’ho scritta in prosa.

Trappola morale, il suo ultimo romanzo di genere noir pubblicato quest’anno da Torre dei venti editrice, che ha il valore aggiunto di essere declinato al femminile, se da un lato per struttura e architettura ricorda una pièce teatrale dall’altro si rivela essere un perfetto meccanismo a incastro in cui tutto ha un unico fine nel rispetto della circolarità di un disegno in cui si intersecano con assoluta precisione le vite come i destini delle protagoniste uniti in modo indissolubile e fatale. Qual è la genesi di questo romanzo e quali sono stati i suoi principali motivi di ispirazione?

“Trappola morale” è nato da due urgenze propulsive. La prima era la volontà di cimentarmi nel genere noir commisto a quello del thriller psicologico; la seconda, il desiderio di dar voce e riscatto a degli esseri arresi ma non vinti. Per un periodo, negli anni novanta, da inevitabile precaria del mondo delle professioni artistiche, ho lavorato in un centro di cartomanzia. L’eco di quell’esperienza mi era rimasta così attorcigliata nella memoria da ispirarmi il personaggio di Francesca. Ho iniziato a scrivere il primo capitolo senza nessuna scaletta. Poteva anche rimanere un monologo teatrale, ma non mi sarebbe bastato. Così, ho cominciato a ragionare su altri personaggi ugualmente invischiati, affini ed allora Elena, una donna d’azione con le armi spuntate e Monica, una giovane complessata convinta che l’unico modo per farsi amare sia quello di prestarsi a delle sevizie, mi sono sembrate le figure giuste. Il resto del disegno, del meccanismo circolare è stato costruito lentamente. L’obiettivo più o meno raggiunto era quello di portare le tre figure al limite della disistima di se stesse per poi farle riemergere anche se non completamente.

Le tre donne protagoniste di Trappola morale, la cartomante, la guardia giurata ex carabiniera esautorata dall’Arma, la giovane masochista, tre espressioni, tre declinazioni, tre variazioni sui temi dell’incomunicabilità e del disagio esistenziale, sembrano essere, non a caso, tutte vittime di un destino avverso, di una vita difficile e ingenerosa che sembra non voler dare loro alcuno scampo. Denominatore comune la solitudine, prima di tutto affettiva, delle loro vite: la prima sola nella sua mansarda conscia di donare illusioni e false speranze a chi la chiama per un vaticinio favorevole, la seconda in cerca di riscatto e di azioni il più possibile coraggiose che la possano in qualche modo riabilitare, la terza in cerca e all’inseguimento di quello che non potrà mai essere un amore ma solo una fonte di dolore e di sofferenza. Al di là delle loro fragilità chi sono e cosa rappresentano realmente le tre protagoniste e quanto può il loro libero arbitrio salvarle da un mondo che, nonostante tutti i loro sforzi, sembra restare a loro estraneo oltre che implacabile e crudele?

Rappresentano tre vite nel medesimo punto di caduta. La solitudine e la mancanza di relazioni affettive che le accomuna parrebbe condannarle a una prigionia esistenziale, a un luogo di non recupero. Invece quello che succede, la corresponsabilità in cui si ritrovano invischiate per una serie di circostanze un po’ nefaste, la necessità di difendersi da accuse che ritengono infondate interrompe la loro autoflagellazione morale. Cominciano a difendersi innanzitutto dal proprio implacabile giudizio e poi da quello degli altri, fino ad assolversi e non senza un’ ironia provvidenziale e salvifica, addirittura  brillante.

I destini delle tre donne, forse solo apparentemente distinti, si incrociano e s’intersecano inevitabilmente e implacabilmente. Trait d’union il commissario De Sanctis, figura maschile a simboleggiare una sorta di coro della tragedia greca e insieme la voce e lo sfondo di una città, uomo di legge particolarmente preciso e zelante nel suo lavoro che nella fitta ragnatela degli eventi dipanerà i nodi cruciali di questa vicenda là dove emergeranno le singole responsabilità riguardanti l’incidente occorso alla giovane masochista. La sincronia degli eventi non darà scampo a nessuna di loro. Messe di fronte alle proprie responsabilità, alle mancanze che sarebbero potute risultare fatali, le protagoniste, cadute in una insostenibile trappola morale, insorgono e si dibattono e anche se di fatto libere i loro destini sembrano non riuscire a redimersi. C’è una colpa, qualcosa di ineluttabile, di incontrovertibile nel destino di ognuno di noi, una sorta di peccato originale che non si può in alcun modo mondare?

Non penso si nasca perfetti. Puri, inconsapevoli, innocenti sì, ma non perfetti. Nasciamo umani e dunque decisamente perfettibili. Il maggior difetto è la mortalità. Talvolta si cerca di esorcizzarlo con una tensione morale tesa al Bene, altre volte si vive come se ci fossero infiniti domani, narcotizzati dall’immanenza. Personalmente ho aderito da tempo a una visione trascendente. Non c’è attualmente nessuna scienza che mi possa dimostrare l’inesistenza di un Dio così come non ce n’è alcuna che mi possa dimostrare il contrario. Nell’incertezza, facendo tesoro del libero arbitrio, preferisco credere che ci sia. Che ci sia un Dio, quello dei Vangeli. E comunque, nonostante la fede, non posso fare a meno di notare la disparità, le ingiustizie, i torti e le malvagità. Mi è difficile credere nel martirio e nel peccato originale come radice dell’infelicità, eppure esistono vite che non riescono a liberarsi di catene ancestrali. O forse chi le vive difetta in autodeterminazione. Non so. Francesca probabilmente continua a pensare che il destino avverso le sia dato come punizione divina per il fatto che pratica magia; è ossessionata dalle pagine del vecchio Testamento in cui si aizzano le fiamme infernali contro coloro che hanno l’ardire di predire il futuro. Elena, invece, si sente condannata dal passato, da coloro che non hanno riconosciuto il suo talento e il suo valore. A Monica basta guardarsi allo specchio per convincersi di essere stata punita nelle sembianze e di doversi dunque umiliare. La mia intenzione era comunque quella di portare ognuna di loro a una nuova consapevolezza.

Come la musica dello stereo che continua a funzionare nella macchina incidentata della giovane masochista, anche la città di Roma esercita una funzione diegetica in questo romanzo. Che cosa rappresenta per lei la città di Roma, testimone silente che sembra diventare un corpo vivo, nel centro come nella periferia?

Roma è densità di bellezza anche nelle sue zone meno rinomate. Ammalia così tanto gli occhi di chi la percorre che per le strade si può camminare senza sentirsi osservati né tantomeno giudicati. Si è spesso rapiti dal caos cosmopolita e nello stesso tempo, paesano. A me, camminare su e giù per i suoi colli dà ancora una carica che non trovo in altre città. Probabilmente perché è stata agognata per tutta l’adolescenza.

 La figura del commissario De Sanctis merita un approfondimento. Alter ego, in qualche modo, contraltare delle tre protagoniste, paladino della giustizia, appare, a sua volta, un uomo solo alla ricerca spasmodica di una sua verità. Cosa rappresenta la visita che decide di intraprendere nella Klimahaus (Casa del Clima) di Brema? Una sorta di catarsi, di viaggio interiore alle prese con i suoi demoni e le sue paure?

Esatto. Il Commissario De Sanctis si infila nei meandri della Casa del Clima di Brema per esorcizzare la propria impotenza senza sapere che ne uscirà ancora più ammaccato nell’orgoglio. Senza sapere che quel viaggio tra le simulazioni di clima di diverse parti del mondo, risveglierà debolezze che pensava di aver neutralizzato. Senza sapere che la visione di quei paesaggi sopraffatti accentuerà il sapore amaro del suo insuccesso.

Quali sono i suoi programmi futuri?

Per ora, sto scrivendo una commedia teatrale che dovrebbe essere rappresentata alla fine del 2024 e lavorando sulla trasformazione di “Trappola morale” in soggetto cinematografico. Nel frattempo ci sono spunti di narrazione che mi vengono spesso a punzecchiare, ma che per il momento non sono ancora in fase di elaborazione.

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